Il blog di Italians for Darfur

domenica, novembre 08, 2009

Sudan a un bivio: referendum o guerra?

Il Sud Sudan tra autodeterminazione e armi


da Limes - rivista italiana di geopolitica


Nel 2001 è previsto il voto sul futuro del Sudan meridionale, ma ci sono ancora molti nodi da sciogliere. La nuova politica di Obama.
La notizia è passata quasi in silenzio. Cosa che capita spesso quando si parla di Sudan. Il 16 ottobre, dopo lunghe trattative e qualche cedimento da entrambe le parti, Sud Sudan e governo centrale hanno raggiunto l’accordo sul referendum per l’indipendenza della regione meridionale del paese, che dovrebbe tenersi nel 2011. Il punto più importante, la determinazione del quorum fissato al 75% degli aventi diritto ad esprimersi sul quesito.

Con la definizione delle regole del voto si è scongiurata la ripresa palese delle ostilità tra Khartoum e Sudan People’s Liberation Movement (principale movimento politico-militare del Sud Sudan) che dall’83 hanno combattuto una guerra ultra ventennale che ha causato 2 milioni di morti ed oltre 4 milioni di rifugiati.

Mentre il National Congress Party del presidente Omar al Bashir fa affidamento sulle elezioni generali (slittate di un anno rispetto alla tabella di marcia del Comprehensive Peace Agreement, che sancì la fine al conflitto nel 2005 nda) per legittimare il proprio potere e quello del candidato unico, Bashir appunto (nonostante su di lui penda un mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità perpetrati in Darfur), l’Splm si concentra sul referendum che dovrebbe determinare la separazione tra Sud e Nord Sudan.
I nodi da sciogliere risultano alquanto intricati, come delinea chiaramente Sadig al Mahdi, ex primo ministro e presidente dell’Umma Party. In primis il varo della legge sulla sicurezza nazionale e la contestazione dei dati dell’ultima relazione demografica del governo sudanese.

“Servono regole e metodi che garantiscano un democratico e libero confronto fra le forze politiche – sottolinea Sadiq, seduto su una comoda poltrona di vimini nel gazebo del giardino della sua villa nella periferia di Khartoum.
Nella sua ‘candida’ jalabia, la tipica tunica bianca sudanese, spiega perché l’accordo non delinei chiaramente "come utilizzare i risultati del censimento nazionale del 2008, dati contestati dal Sud perché la popolazione sarebbe stata sottostimata. Se il Cpa rischia di arenarsi è anche a causa della sfiducia crescente tra le parti. Ma il punto è un altro: così com’è strutturato, l’Accordo - insiste Sadiq - non attribuisce alcun ruolo ai partiti minori che non lo hanno firmato e garantirebbe esclusivamente il Sud Sudan, senza tenere conto di altre aree, come l’Est del Paese e il Darfur, penalizzate allo stesso modo.
Per rilanciare il processo di attuazione dell’Accordo è necessario ampliare il confronto sul futuro del Paese. Costituire un’assemblea con tutte le formazioni politiche, comprese quelle dell’opposizione, che abbia il sostegno della Comunità Internazionale che rilancia le riforme in Sudan e garantisca la transizione democratica su basi più ampie e condivise, dando vita a un vero decentramento a vantaggio di tutte le aree finora marginalizzate”.

Ancora più netta la posizione di Hassan Al Turabi, leader del maggiore partito di opposizione del Sudan, il Popular congress party, più volte arrestato per gli aspri attacchi politici rivolti a Bashir.
“Non ho alcuna fiducia nel processo elettorale che dovrebbe portare alle presidenziali e alle legislative del 2010, tanto meno nel referendum – afferma sicuro circondato dalla sua corte di consiglieri e addetti alla sicurezza che per discrezione vengono presentati come ‘colleghi di partito’ – E’ tutto fermo e non credo che le urne saranno mai aperte. Dopo la firma del Cpa il governo sudanese non ha fatto nulla per preservare l’unità del Paese. Anzi. Ha alimentato le tendenze secessioniste dell’Splm che, però, non credo sia capace di governare un Sud Sudan totalmente indipendente. Bashir conta su questo e se può rallentare il processo elettorale e referendario lo farà”.

Su quest’ultimo punto anche gli osservatori esterni hanno qualche dubbio: non sono in pochi a ritenere che il regime sudanese possa attuare un subdolo ostruzionismo per far slittare la data del referendum. Cosa che di fatto decreterebbe la fine dell’Accordo e potrebbe riaccendere il conflitto. Eppure gli ultimi avvenimenti farebbero pensare il contrario. E Khartoum lo rivendica con decisione. Esponenti di spicco del governo, negli incontri con gli inviati della diplomazia internazionale. anche nelle ultime settimane hanno espresso valutazioni positive sulle prospettive di piena attuazione del Cpa.
Dal ministero degli Esteri hanno più volte fatto filtrare la convinzione che “le questioni in sospeso possano essere risolte dalle parti entro la fine dell’anno”.

Osman Hussein Mudawi, responsabile delle Relazioni internazionali del Parlamento, si spinge oltre sottolineando come “lo svolgimento delle elezioni e del referendum sia un obbligo costituzionale e malgrado oggettive difficoltà di carattere logistico-operativo il Governo sudanese stia profondendo il massimo impegno affinché sia garantito un processo elettorale il più ‘inclusivo’ e democratico possibile”. Eppure, nonostante le rassicurazioni di Khartoum, lo scetticismo di esperti e analisti resta forte. Per comprenderne i motivi è necessario fare un passo indietro e capire cosa sia successo negli ultimi quattro anni e quali prospettive (reali) abbia la totale attuazione del Cpa.

“Con l’Accordo Globale di Pace sottoscritto a Nairobi il 9 gennaio 2005 dal Governo di Khartoum e dall’Splm – spiega Mauro Annarumma, vice presidente di Italians for Darfur, l’associazione italiana che da anni si batte per la difesa dei diritti umani in Sudan e Darfur e che ha recentemente partecipato a una missione nel paese subsahariano con l’Intergruppo parlamentare Italia – Darfur - furono tracciati nuovi parametri della distribuzione del potere politico ed economico nel Paese, garantiti dalla nascita di un Governo semi-autonomo del Sud Sudan con capitale Juba. Fu stabilito che il presidente designato assumesse anche la carica di Primo vice presidente del Sudan (il primo a ricoprire questo ruolo fu John Garang, morto in un sospetto incidente di elicottero in Uganda, al quale successe Salva Kiir che è tuttora in carica nda). Punti fondamentali dell’accordo, la suddivisione al 50% dei proventi petroliferi dei pozzi sud sudanesi, la definizione dei confini e il ‘diritto di autodeterminazione del Sud’ attraverso un referendum previsto per la fine di un periodo interinale di cinque anni. Il 2011. Ed è proprio il rischio che questo termine ultimo non venga rispettato a suscitare la preoccupazione della Comunità Internazionale”.

In questo contesto geopolitico è maturata e ha preso corpo nelle ultime settimane la nuova policy, nei confronti del Sudan, dell’amministrazione Obama fatta di ‘incentivi e disincentivi’, la classica politica ‘del bastone e della carota’.
Obiettivo degli States: accelerare l’attuazione dell’Accordo e convincere Khartoum a sospendere attacchi e azioni che violino i diritti umani sia in Sud Sudan sia in Darfur, utilizzando per quest’ultima area di crisi il termine ‘genocidio’.
Sull’annuncio della nuova strategia americana si sono animate non poche polemiche e l’atteggiamento del governo sudanese è stato alquanto freddo, infastidito soprattutto dalla definizione, assai sgradita, usata da Obama.
Dal regime sono arrivati velati avvertimenti su come “assumendo atteggiamenti punitivi nei confronti del Sudan, come sanzioni e mancata cancellazione del debito, si metterebbero a rischio sia la riconciliazione in Darfur sia lo sviluppo di altre aree depresse del Paese come l’Est Sudan”.

Nonostante le criticità siano numerose, l’elemento più preoccupante resta l’instabilità dell’accordo di pace, in bilico fino a quando non sarà attuata una precisa e incontestabile definizione e delimitazione dei confini tra Nord e Sud Sudan, fondamentale per potere dare attuazione agli altri punti del Comprehensive Peace Agreement.
Tra le aree contese Abyei, ricca di petrolio e posta proprio al confine tra Nord e Sud (attualmente ha uno status amministrativo autonomo) e Sud Kordofan.
Il referendum per l’autodeterminazione del Sudan meridionale, nel 2011, sarà l’occasione per Abyei di pronunciarsi sul mantenimento del proprio status speciale rimanendo nel Nord o sulla sua inclusione nel Sud.
Le tensioni nell’area non mancano essendo abitata sia dagli autoctoni Dinka, etnia vicina all’Splm, sia da gruppi nomadi, in particolare Misseriya e Nuer, filogovernativi. Proprio a causa delle divergenze etniche, ma anche per ll controllo di acqua e terra destinata alle attività agricole e pastorali, si sono susseguiti negli ultimi mesi violenti scontri (il più grave poche settimane fa, oltre 400 vittime in poche ore) che non hanno risparmiato donne e bambini.
Per cercare di dare un freno alle violenze nella regione nel giugno 2008 i governi di Khartoum e Juba hanno delineato una road map per la risoluzione dei problemi dell’area. Ma tale iniziativa non ha sortito gli effetti sperati.
Le speranze, ora, sono affidate al protocollo proposto dalla Corte Permanete di Arbitrato dell’Aja, che investita della questione ha determinato la posizione dei campi petroliferi in Sud Kordofan (dove nel frattempo è stato nominato governatore Ahmed Harun, ex ministro per gli Affari umanitari del gabinetto di Bashir, anch’egli incriminato dal Tribunale penale internazionale di crimini di guerra e contro l’umanità) e ha parzialmente ridefinito, lo scorso 22 luglio, i confini dell’area di Abyei, aumentando le zone attribuite al Nord. La decisione è stata accettata dalle parti politiche, ma non ha placato il malcontento della popolazione locale.

La situazione, dunque, è tutt’altro che sotto controllo. E poco o nulla può fare la missione di pace dell’Onu, Unmis (United Nation Mission in the Sudan), istituita con la Risoluzione 1590 del 24 marzo 2005 (8.400 soldati e 680 poliziotti) per sostenere l’assistenza umanitaria e garantire il rispetto dei diritti umani.
Lo stato della crisi, visto il costante deterioramento delle condizioni umanitarie e di sicurezza, desta grandi preoccupazioni in tutta la comunità internazionale. Dall’inizio dell’anno i morti sarebbero circa 3mila.

E il contesto non può che peggiorare. Continua infatti a registrarsi un flusso di carichi di armi che, attraverso Port Sudan, arrivano nelle mani dei militari dell’Splm. E’ di pochi mesi fa la notizia del sequestro, ad opera dei pirati somali, della nave cargo ucraina ‘MV Faina’ che trasportava 33 carri armati, 150 lanciarazzi e 6 sistemi missilistici antiaerei destinati al Sudan meridionale. I marinai a bordo dell’imbarcazione hanno dichiarato e mostrato la bolla merci e il contratto relativo al carico a un giornalista della Bbc che ha documentato tutto in un’inchiesta smentita sia dal governo di Juba, sia dal Kenya che avrebbe effettuato l’acquisto per conto del Sud Sudan. Secondo la Bbc i carri armati e il resto del materiale, dissequestrati a seguito del pagamento di un riscatto, erano parte di una lunga serie di carichi bellici destinati a riarmare (clandestinamente visto che in Sudan è in vigore l’embargo della vendita di armi) l’esercito di Juba.
Insomma, nel caso che il referendum non avesse mai luogo, l’esercito sudsudanese sarebbe pronto a conquistarsi con la forza l’indipendenza negata.

Antonella Napoli

Gruppo Espresso, 6 novembre 2009

1 Comments:

  • la colpa è dei pacifisti, degli ipocriti, di chi fa politica tendenziosa sulla pelle della gente, e dei corrotti... in Darfur occorre l'intervento militare coordinandolo tra i vari stati democratici limitrofi e con l'ausilio delle forze armate europee ed americane.... il darfur fa comodo alla Cina...

    By Blogger Azrael5, at 4:29 AM  

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