Il blog di Italians for Darfur

lunedì, maggio 28, 2007

L'inferno del Darfur

[Ricevo da Antonella Napoli e pubblico in sua vece (L.S.)]
L'inferno del Darfur: un nuovo racconto che non può lasciare indifferenti.
Sette donne raccontano uno stupro di massa a pochi chilometri del campo di accoglienza

Un racconto terrificante. Un orrore indicibile, storie angoscianti che non potrebbero lasciare indifferente neanche il più insensibile degli esseri umani.
Nel campo profughi di Kalma, in Darfur, sette donne sudanesi hanno raccontato All'Associated Press lo stupro e le violenze subite da un gruppo di miliziani arabi, i purtroppo ben noti ‘janjaweed’, una volta lasciato il campo per andare a raccogliere la legna.
La loro terribile storia è stata confermata dagli operatori umanitari presenti Nell’area e che da oltre quattro anni denunciano l'inferno che è il Darfur. Da quando il governo di Khartoum ha assoldato i miliziani arabi della regione per sedare la rivolta delle tre principali etnie africane locali contro il governo, si sono susseguite violenze e soprusi indicibili.
Un vero e proprio conflitto iniziato nel febbraio 2003, costato la vita ad almeno 200.000 persone, e che ha costretto oltre 2,5 milioni di persone a cercare rifugio nei campi profughi.


IL RACCONTO
Le sette donne protagoniste di questa tragica vicenda avevano raccolto il denaro sufficiente per noleggiare un carretto trainato da un asino, per poter uscire dal campo e raccogliere la legna da rivendere al mercato, ma a poche ore di cammino sono state violentate, picchiate e derubate. Solo dopo molte ore, nude e traumatizzate, sono rientrate a Kalma.
"Per tutto il tempo che è andato avanti io continuavo a pensare: stanno uccidendo il mio bambino, stanno uccidendo il mio bambino", racconta Aisha, al settimo mese di gravidanza al momento dello stupro.
Le donne non hanno dubbi sui responsabili delle violenze: i cammelli e le uniformi indicavano la loro appartenenza ai janjaweed.
Dieci arabi a dorso di cammello le hanno circondate, urlando insulti e sparando in aria. Le donne hanno prima cercato di fuggire. "Io non ho neanche provato, perché non ce l'avrei mai fatta", ha detto Aisha, la ragazza di 18 anni incinta al settimo mese. Quattro uomini le si sono messi alle spalle, colpendola con dei bastoni, mentre gli altri janjaweed inseguivano il resto del gruppo. "Non siamo andate molto lontano", ha detto Maryam, mostrando la ferita da arma da fuoco su un ginocchio.
Una volta circondate, le donne sono state picchiate e il loro asino ucciso. Zahya, 30 anni, era accompagnata dalla figlia di 18 anni, Fatmya, e dal suo bambino. Il bimbo è stato gettato a terra e le due donne sono state stuprate. Il bambino è sopravvissuto. Zahya ha raccontato di aver visto quattro uomini stuprare a turno Aisha. Denudate e percosse le donne hanno ripreso la strada verso Kalma. Lungo il cammino hanno incontrato alcuni uomini del campo profughi, che hanno offerto loro i turbanti di cotone.
Al loro arrivo sono state derise. Alle donne sono state date pillole contro la gravidanza e l'Hiv. Nel frattempo è nato anche il bambino che Aisha aspettava, chiamato Osman.


IL CAMPO DI KALMA
Kalma è un microcosmo di miseria alle porte di Nyala, capitale del Darfur del Sud: capanne di fango e tende di plastica accolgono circa 100.000 rifugiati. La struttura è ormai al limite delle sue capacità di accoglienza, tanto che il governo ha cercato di limitare i nuovi arrivi, vietando la costruzione di nuove latrine. Chiunque si avventuri fuori dal campo sa di poter incontrare i janjaweed.
Le sette donne hanno raccontato di aver lasciato il campo di Kalma un lunedì mattina del luglio dello scorso anno e di essere state aggredite poco dopo aver iniziato a raccogliere la legna. Il dramma della violenza che hanno subito non è legato solo al dolore fisico e morale, ma anche alle conseguenze nella comunità: in Sudan, come in molti paesi islamici, la società considera lo stupro come un disonore per tutta la famiglia della vittima.
"Le vittime si trovano a dover affrontare un terribile ostracismo", ha dichiarato la coordinatrice dell'Onu, Maha Muna. Alcuni operatori umanitari ritengono che i janjaweed ricorrano alla violenza sessuale per intimidire i ribelli, le loro famiglie e i loro sostenitori. "E' una strategia di guerra", ha sottolineato Muna.


LA POSIZIONE DEL GOVERNO
Il governo sudanese nega che gli abusi sessuali siano così diffusi come denunciato dalle agenzie umanitarie, per timore di forti rimostranze da parte dell'opinione pubblica, che considera lo stupro molto più grave di qualsiasi altro crimine commesso nella regione. Un alto funzionario del governo ha ammesso, sotto anonimato, che i janjaweed sono stati armati da Khartoum all'inizio del conflitto, ma ha poi precisato che al momento non è più in grado di controllare i miliziani. Dichiarazioni in parte confermate da un attivista per i diritti umani, Nasser Kambal, co-fondatore del centro Amel, impegnato nel sostegno alle vittime di stupro e di altri abusi. "Non credo che lo stupro sia stato pianificato dal governo - ha detto Kambal - omicidi, saccheggi e torture sì, ma non lo stupro".


PIANTARE POMODORI
Il campo di Kalma non è l'unico luogo testimone di molteplici casi di stupro. A 190 chilometri di distanza, nella città di Mukjar, due uomini hanno raccontato di aver visto alcune donne portate di forza nella prigione dove erano detenuti e stuprate per ore dai janjaweed. I due testimoni hanno riferito che i miliziani urlavano che stavano "piantando pomodori", riferendosi al colore della pelle. In Darfur gli arabi si definiscono "rossi" perché sono leggermente meno scuri degli africani.
Nel 2006, gli operatori dell'Onu hanno denunciato 2.500 casi di stupro nella regione, ma ritengono che si tratti di un dato molto lontano dalla realtà. La cifra reale si aggirerebbe su migliaia di casi al mese, secondo un funzionario dell'Onu. Le donna a capo delle tribù presenti a Kalma riferiscono di oltre una decina di stupri a settimana. Gli operatori umanitari attivi nel Darfur del Sud stimano in oltre 100 le donne stuprate ogni mese soltanto nell'area di Kalma.
Le vittime solitamente non sono in grado di identificare i loro aggressori. Soltanto otto persone sono state processate e condannate per crimini sessuali in Darfur nel 2006, stando a quanto precisato da Mustapha. "Sono stati condannati dai tre ai cinque anni di carcere e a 100 frustate", secondo quanto previsto dalla legge islamica.
Le sette donne oggi lavorano in un piccolo laboratorio dove vengono fabbricati boccali per l'acqua. Un lavoro che non riesce a lenire la loro povertà, "ma almeno non dobbiamo più allontanarci", dice Aisha. Nessuna delle sette donne ritiene che la corte penale internazionale o una corte sudanese renderà mai loro giustizia. Tutto quello che Zahya chiede è di poter tornare nel suo villaggio. "Se almeno la gente ci aiutasse a far cessare i combattimenti, ci basterebbe".

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2 Comments:

  • egoismo e indifferenza sono le peggiori piaghe della nostra società.Mi vergogno di appartenervici

    By Blogger angelica, at 3:25 AM  

  • La societa' puo' e deve essere riformata. Non vergognamoci di cio' che siamo, ma lottiamo per cio' che vorremo essere.

    By Blogger Mauro Annarumma, at 11:23 PM  

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