Il blog di Italians for Darfur

mercoledì, ottobre 03, 2007

Stefano Cera: "Le sfide della diplomazia internazionale. Il conflitto nel Darfur "

Stefano CeraA distanza di alcuni mesi, riproponiamo il contributo di Stefano Cera, rinnovando i nostri sinceri ringraziamenti per la fattiva collaborazione. Docente e relatore di programmi di formazione e aggiornamento, fra gli altri, del CoESPU (Centro di Eccellenza per le Stability Police Units), del CASID (Centro Alti Studi della Difesa) e SSAI (Scuola Superiore dell' Amministrazione dell'Interno), Stefano Cera è autore del volume “Le sfide della diplomazia internazionale. Il conflitto nel Darfur - L’escalation della questione cecena: i sequestri di ostaggi del teatro Dubrovka e della scuola di Beslan” (edito da LED Edizioni).

Mukesh Kapila, il coordinatore dei diritti umani in Sudan, alla fine del 2003 ha definito la situazione nel Darfur come “la crisi umanitaria più grande del mondo”…purtroppo dopo oltre tre anni la situazione resta la stessa, anzi sotto molti aspetti possiamo dire che è addirittura peggiorata.
Le radici del conflitto
Il conflitto nel Darfur viene conosciuto a livello internazionale a partire dal 2003, quando le forze ribelli che raccolgono le tensioni presenti all’interno delle comunità africane, reagiscono agli attacchi condotti dai janjaweed, con l’appoggio del governo di Khartoum. In realtà il conflitto nasce molto prima, quando, a partire dalla fine degli anni ’80, i tradizionali contrasti tra comunità africane, legate ad un’economia agricola e stanziale e le tribù di origine araba, dedite invece alla pastorizia ed al nomadismo, vengono acuiti dall’affermarsi dell’arabismo, ossia una nuova ideologia razzista che punta l’attenzione sull’esaltazione della nazione araba a scapito delle comunità africane. Per reazione alle continue discriminazioni, vissute a tutti i livelli (tribunali, luoghi di lavoro, amministrazione ed esercito) nonché ai sempre più numerosi attacchi da parte delle milizie arabe (i famigerati janjaweed, ossia i “diavoli a cavallo”), le comunità non arabe riscoprono la loro “africanità” è, nel 2000, compare il “Libro Nero”, pubblicato, pur senza riportare alcuna informazione su autori e luogo di pubblicazione, da un comitato di 25 esponenti che si auto-definiscono “Coloro i quali ricercano la verità e la giustizia”; lo shock determinato dal volume non riguarda tanto i contenuti (che non costituiscono una novità in assoluto), quanto il fatto che con esso è stato infranto un tabù, dal momento che è stato dato alle stampe qualcosa che tutti conoscevano ma che, fino ad ora, nessuno aveva avuto il coraggio di rendere esplicito.
Inizio della ribellione
Nel 2003 le forze ribelli, legate alle comunità africane (soprattutto Fur – che costituiscono l’etnia più numerosa nella regione, tanto che lo stesso nome Darfur significa “dimora dei Fur”, da “dar”, casa, dimora in arabo -, Zaghawa e Masalit), salgono agli onori della cronaca per gli attacchi ad alcune stazioni di polizia, caserme e convogli militari. I ribelli sono organizzati soprattutto in due movimenti:
• il Sudan Liberation Army/Movement (SLA/M), che appare dopo breve tempo profondamente diviso al suo interno in seguito ai contrasti da Abdel Wahid, la guida politica del movimento, di etnia Fur e Minni Minawi, uno dei capi militari più importanti, di etnia Zaghawa
• il Justice and Equality Movement (JEM), maggiormente unito al suo interno, sotto la guida di Khalil Ibrahim e legato ad Hassan al-Turabi, in precedenza ideologo del governo islamico di Bashir.
In seguito alla ribellione del marzo 2003, il governo considera la controffensiva inevitabile, anche grazie al supporto delle milizie dei janjaweed, diventate nel frattempo vere e proprie forze di combattimento para-militari.
I tentativi di negoziato
Nel conflitto del Darfur vi sono stati diversi tentativi negoziali, a carattere locale e a livello internazionale, questi ultimi avvenuti sia sotto l’egida di alcuni paesi vicini (esempio il Chad, la Libia) sia sotto l’egida dell’Unione Africana. In particolare questi ultimi meritano grande attenzione visto che, a partire dal 2004, si sono svolti diversi round di colloqui (prima ad Addis Abeba e poi ad Abuja), che hanno portato, nel maggio 2006, al Darfur Peace Agreement (DPA), sottoscritto dal governo di Khartoum e da una delle fazioni dello SLA/M (quella di Minawi, che entra a far parte del governo centrale). I tentativi negoziali sono stati caratterizzati dalla profonda frammentazione all’interno delle forze ribelli (in seguito ai contrasti sulla leadership tra esponenti militari e politici e tra capi militari delle “vecchie” e delle “nuove” generazioni,) dalla mancanza di competenze specifiche da parte delle delegazioni (i movimenti ribelli non definiscono una piattaforma negoziale comune e si presentano profondamente divisi nelle loro posizioni di fronte al governo), dalla posizione intransigente di Khartoum (che preferisce ottenere una vittoria militare contro i ribelli piuttosto che “dialogare per scendere a patti”) e dalla particolare attività come mediatore dell’African Union (che non agisce come terzo neutrale facendo pressioni sulle forze ribelli affinché accettino la bozza di accordo).
La situazione attuale
Tuttavia, così come accaduto in altri recenti conflitti (esempio in Ruanda dove la tragedia della guerra civile è nata da un accordo di pace non rispettato dalle parti), l’accordo del maggio 2006 si è dimostrato del tutto inefficiente ed ha finito per peggiorare la situazione, in quanto non è stato sottoscritto da alcune fazioni dello SLA/M, dal JEM e da altre forze significative nella regione (ad esempio il Sudan Federal Democratic Alliance, SFDA, di Diraige e Harir). Con l’importante eccezione di Wahid, quasi tutte le forze contrarie al DPA si sono successivamente riunite nel National Redemption Front (NRF), contro cui, a partire dal mese di settembre 2006, il governo di Khartoum ha iniziato una offensiva militare, a cui sono associati i sempre più frequenti attacchi da parte delle milizie dei janjaweed. Il conflitto, che ha già provocato oltre 200.000 morti e due milioni di profughi (su una popolazione totale stimata di 7 milioni), rischia al momento di estendersi ad altri paesi, fra questi il Chad (dove si registrano tensioni sempre più forti con il governo di Khartoum) e la Repubblica Centro-africana.
La missione dell’Unione Africana
Nell’aprile del 2004 inizia la missione dell’Unione Africana nel Darfur; il mandato inizialmente è solo quello di proteggere il gruppo di 120 osservatori del cessate il fuoco sottoscritto nel mese di aprile 2004 e nulla è previsto per l’aiuto alla popolazione civile del Darfur. Successivamente il mandato viene ampliato attraverso la definizione di misure di confidence-building (di “costruzione della fiducia” tra le parti), la protezione dei civili che si trovano sotto minaccia imminente e nelle immediate vicinanze (resta inteso però che la protezione della popolazione civile è di precisa responsabilità dello stato) e tutte le attività necessarie per contribuire alla creazione di un ambiente sicuro per gli aiuti umanitari e per permettere il ritorno degli sfollati interni e dei rifugiati. La missione, rinnovata nel novembre del 2006 per un periodo di sei mesi, presenta numerosi punti deboli in quanto il mandato, per quanto ampliato, appare ancora inadeguato rispetto alle esigenze reali del Darfur; inoltre la missione manca di risorse significative e dipende troppo dalla volontà di cooperazione del governo di Khartoum (e dal momento che il governo non ha mai mantenuto l’impegno di porre un freno alle violenze, esistono forti perplessità circa l’effettiva volontà del governo di cooperare con la missione).
La proposta di missione ONU
Il 31 agosto 2006 il Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato la Risoluzione 1706, attraverso la quale ha esteso alla regione del Darfur il mandato della missione ONU in Sudan (UNMIS), chiamata a monitorare l’accordo di pace tra Nord e Sud del paese del gennaio 2005; la risoluzione prevede il dispiegamento di una forza di oltre 20.000 uomini, con un mandato che rientra nel quadro del Capitolo VII della Carta ONU, per il rispetto del DPA e per la protezione dei civili, del personale ONU e degli operatori umanitari. Il regime continua tuttavia a rifiutare la presenza di truppe ONU, preferendo continuare a ragionare secondo una logica “africana”; la posizione ufficiale di Khartoum è che la presenza della forza ONU determinerebbe una profonda instabilità nella regione, con la conseguenza di attrarre molti militanti di al-Qaida. Gli analisti invece mettono in evidenza che il rifiuto è determinato soprattutto dal timore che la sua presenza ONU potrebbe facilitare l’incriminazione da parte della Corte Penale Internazionale (ICC) di esponenti del governo e dei capi delle milizie dei janjaweed. Per mobilitare l’opposizione popolare contro il dispiegamento della forza militare, il regime utilizza la retorica nazionalista e anti-occidentale, con argomentazioni di stampo religioso.

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