Il blog di Italians for Darfur

mercoledì, maggio 13, 2009

La Corte Penale Internazionale accusa il presidente del Sudan: un drammatico "Valzer con Bashir"?

di Stefano Cera

Nel luglio 2008 il Procuratore della Corte Penale Internazionale (attivata con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU 1593/2005) Luis Moreno Ocampo accusa il Presidente del Sudan Omar Hassan al-Bashir di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, chiedendo l’emissione di un mandato d’arresto.
Secondo le prove raccolte il presidente sudanese avrebbe diretto e applicato un piano per distruggere in modo sostanziale i gruppi africani Fur, Zaghawa e Masalit sulla base della loro etnia: «Per cinque anni le forze armate e la milizia Janjaweed, sotto gli ordini di Bashir, hanno attaccato e distrutto villaggi. Poi attaccavano i sopravvissuti nel deserto. Quelli che raggiungevano i campi erano soggetti a condizioni messe in atto in modo calcolato allo scopo di distruggerli». Secondo Ocampo «i suoi motivi erano largamente politici, il suo alibi è stato l'insurrezione, il suo intento è stato il genocidio». Le «forze e gli agenti» che agivano sotto il controllo di Bashir avrebbero ucciso direttamente almeno 35.000 civili e causato la morte di un numero di persone compreso tra 80 e 265.000, sradicate dai loro villaggi.
Il 4 marzo, dopo oltre sette mesi dalla presentazione delle accuse, attraverso una decisione inedita nella storia della Corte (perché per la prima volta riguarda un presidente in carica) la Camera preliminare uno della Corte Penale Internazionale emette un mandato di arresto nei confronti di Bashir, riconoscendo i capi d’imputazione per crimini contro l’umanità e per crimini di guerra, ma non quelli riguardanti le accuse di genocidio (con la maggioranza di due giudici su tre).
Il confronto nella Comunità Internazionale
Dalla presentazione delle accuse, inizia un acceso dibattito nella comunità internazionale, che prosegue, con rinnovato vigore, dopo la richiesta di arresto. Indicativo è il commento di Antonio Cassese (che nel 2005 ha presieduto l’ICID, la «Commissione internazionale incaricata di investigare le violazioni dei diritti umani e l’accertamento dell’eventuale genocidio»), secondo cui l’iniziativa della Corte è importante soprattutto per «scuotere l’attenzione del pubblico», ma servirebbe a poco in termini pratici e anzi potrebbe rivelarsi un boomerang in grado di vanificarne il lavoro, considerata la difficoltà di rendere effettivo il mandato di arresto. Per questo motivo sarebbe stato preferibile richiedere un ordine di comparizione: «in tal modo il Presidente sudanese, volendo far valere le proprie ragioni, avrebbe potuto presentarsi alla Corte da uomo libero, per contestare le accuse» (la Repubblica, 5 marzo 2009).
All’interno della Comunità internazionale, si confrontano due diverse priorità: fare giustizia, attraverso il rispetto del mandato, e favorire il processo di pace, dando la priorità al ruolo ipotetico che Bashir potrebbe avere nei negoziati, trascurando le sue responsabilità nei massacri compiuti nel Darfur. Chi sostiene la seconda, teme soprattutto le ripercussioni negative che la condanna di Bashir potrebbe avere sulla situazione in Darfur. Si sottolinea, ad esempio, il rischio di una «polarizzazione» delle posizioni delle parti. Da una parte i movimenti di opposizione, che hanno più volte affermato il rifiuto del dialogare con un ricercato internazionale (come dimostrato anche dall’abbandono del JEM – Justice and Equality Movement – del processo di pace intrapreso a Doha solo due mesi fa). Dall’altra il Presidente Bashir, che potrebbe ostacolare il già lento dispiegamento della missione di peacekeeping UNAMID e il lavoro delle organizzazioni umanitarie (come dimostrato dall’espulsione di tredici organizzazioni non governative all’indomani della richiesta di arresto), con conseguenze drammatiche per la popolazione. Inoltre, un governo centrale solido è ritenuto necessario per garantire il progresso dei colloqui di pace.
Pertanto, la richiesta di molti (Lega Araba, Unione Africana, Movimento dei paesi non allineati, Organizzazione della Conferenza islamica, il Consiglio per la Cooperazione nel Golfo e, all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU, Cina - principale partner commerciale del Sudan - e Russia) è la sospensione della procedura previsto dall’articolo 16 dello Statuto della Corte, secondo il quale il Consiglio di Sicurezza ONU ha il potere di sospendere (con voto unanime dei cinque membri permanenti) per un periodo rinnovabile di dodici mesi le indagini del Procuratore o un qualsiasi procedimento penale in atto. Sono a favore della sospensione anche alcuni esperti di questioni sudanesi, come ad es. Alex De Waal (già consulente dell’Unione Africana durante la mediazione che ha portato al Darfur Peace Agreement del maggio 2006), che motiva l’applicazione dell’art. 16 sulla base del timore che il National Congress Party del presidente Bashir potrebbe ostacolare non solo il processo di pace in Darfur, ma anche il Comprehensive Peace Agreement, sottoscritto con il Sudan meridionale nel gennaio 2005, con conseguenti rischi di instabilità in tutto il paese (Sudan Tribune, 29 gennaio 2009). Altri, come Eric Reeves, non credono invece all’efficacia di un’eventuale sospensione: «Per quale motivo l’impunità dovrebbe portare alla pace in Darfur? I sostenitori del processo di pace ci chiedono di aver fiducia in un governo brutale e cospiratore, che in venti anni di potere non ha mai rispettato alcun accordo con gli altri partiti. Ci chiedono di credere che questa volta le cose andranno diversamente» (Internazionale, n. 784, 27 febbraio 2009).
L’ipotesi di sospensione “condizionata”
L’International Crisis Group ha evidenziato che, in funzione della particolare situazione del paese, l’ipotesi di sospensione dovrebbe essere sottoposta a precise condizioni; tra queste, garanzie per evitare ogni tipo di rappresaglia nei confronti del personale diplomatico e civile. Inoltre, è necessario che si realizzi un vero cambiamento della politica del governo che passi attraverso alcune tappe: la costituzione di un serio ed efficace sistema interno d’indagini nei confronti dei responsabili dei crimini commessi nel Darfur, come rilevato dallo stesso Segretario Generale ONU Ban Ki-Moon; un impegno credibile nei confronti del processo di pace, per esempio tramite l’allargamento della partecipazione ai colloqui anche agli altri movimenti di opposizione; infine l’impegno di Bashir a non presentare la propria candidatura alle prossime elezioni presidenziali (purtroppo disatteso dallo stesso presidente che ha recentemente presentato ufficialmente la propria candidatura per le elezioni del febbraio del prossimo anno). Tuttavia, per fare questo è necessario che i paesi e le organizzazioni internazionali più vicini al Sudan (per i legami economici Cina e Russia e per i legami politici soprattutto Egitto, Libia, Unione Africana e Lega Araba) non si limitino a fare da eco alle richieste di Khartoum, ma cerchino di utilizzare i propri legami per stimolare i cambiamenti necessari, puntando soprattutto sul rischio d’isolamento per il paese.
Le argomentazioni dai fautori del mandato di arresto
Louise Arbour, già procuratore del Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia, ha spesso affermato che osservare un imperativo di giustizia non significa sabotare la pace, ma anzi contribuire a essa. Questa è l’opinione di chi ritiene la sospensione un rischio, per diversi motivi. Innanzitutto perché costituirebbe un pericoloso precedente, in grado di minare la credibilità della Corte e della stessa ONU; infatti, stabilendo una presunta «negoziabilità dei diritti umani», metterebbe in secondo piano le responsabilità di Bashir nei confronti delle persecuzioni dei civili, che anzi potrebbero continuare anche grazie al clima di impunità creatosi. Inoltre, è forte il timore che la sospensione finisca per annullare gli sforzi della Corte, secondo il principio «justice delayed, justice denied». Infine, perché il mandato di arresto potrebbe costituire un efficace mezzo di pressione, in grado di provocare cambiamenti anche all’interno dello stesso regime, comunque diviso da tensioni interne. Tuttavia, per fare questo è necessario che tutti gli stati diano il loro sostegno, forte e senza ambiguità, all’attività della Corte.
in Meridiano 42 (http://lnx.meridiano42.org/index.php?option=com_content&task=view&id=66&Itemid=40)
(Anno III, numero 4 – aprile 2009)

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