Il blog di Italians for Darfur

mercoledì, marzo 23, 2011

Nasce a Trento il Coordinamento dei Darfuri del Nord-Est.

Abdulwahab Ahmed ci svela il suo sogno in divenire, una sfida anche alla difficile integrazione nella regione del Nord-Est.

di Mauro Annarumma per MPNews

Puntuale, il treno si ferma a Trento, dove sta prendendo forma il Coordinamento dei Darfuri del Nord-Est, un ulteriore tentativo di riunire la folta comunità di rifugiati del Darfur in Italia, presenti principalmente anche a Roma, Parma, Torino e Milano.

Ciò che rende importante la sua iniziativa e che mi ha spinto a prendere quel treno, è ancora la volta il sogno di un giovane quasi venticinquenne, scappato da una terra in fiamme e dal servizio militare obbligatorio nelle fila governative, felicemente accolto in Italia, ma che mi confessa, quasi sottovoce e con mio enorme stupore, quanto ancora sia difficile, per un ragazzo di colore, integrarsi appieno in una città come Trento. Sembra dirmi Abdul, arrivi come straniero, e vivi come straniero. Incalzato dalle mie domande si lascia andare alla parola che mai vorremo risentire, “razzismo”. Certo è velato, mascherato negli sguardi della gente, nelle battute dei giovanissimi compagni di studio. Nella triste scala della diffidenza, mi confessa il giovane zaghawa: “Prima veniamo noi, africani di colore, poi gli Arabi e i mhagrebini, infine i meridionali”.

Ma Abdul ci tiene a ricordare anche le amicizie sincere del suo gruppo di teatro, che riscuote sempre più successo per la città, la speranza di potersi integrare appieno e di trovarvi un lavoro come tipografo.

E’ sufficiente una domanda, e parte il fiume di parole del giovane Abdul.

- Perché nasce il Coordinamento dei Darfuri del Nord-Est?

- Solo a Trento abbiamo già un gruppo di dieci giovani, attivamente impegnati nella divulgazione nelle scuole di quanto accade in Darfur, la nostra amata terra. Abbandonarla non è stata facile, rompere con la famiglia, soprattutto per me, così legato a mia madre, morta mesi fa. Sono qui dal 2005, e grazie a mio padre che era già qui in Italia come rifugiato, sono stato più fortunato di altri miei connazionali, spesso senza lavoro, perduti tra l’alcool e la manovalanza nella vendita di prodotti contraffatti. Io invece voglio crescere, studiare, lavorare. Con il nostro gruppo testimoniamo, ognuno con le proprie storie, il dramma di un popolo in fuga, vittima, prima della guerra, del razzismo arabo del Nord, che mal vede i darfuri. Peggio ancora sono considerati i figli del Sud Sudan, disprezzati ed emarginati. Anche noi, da piccoli, veniamo educati che non bisogna fidarsi di loro, come accadeva con i miei vicini di casa a Nyala, un po’ come si fa con i bambini oggi con gli estranei, con lo straniero. Fortunatamente loro sono riusciti a trovare la loro strada [il voto dello scorso gennaio ha sancito la scelta del popolo sud sudanese per l’indipendenza della regione da Khartoum, ndr.]

- Cosa fa, nello specifico, il vostro centro di coordinamento?

- Nelle scuole chiediamo innanzitutto cosa sia il Darfur, dove sia il Sudan. Quasi nessuno sa darci delle risposte, allora prendiamo una mappa, e spieghiamo loro ciò che sappiamo. Cerchiamo poi di ricontattare gli altri rifugiati del Darfur, presenti nel Nord Italia, per far capire loro che, insieme, si può far sentire la nostra voce. Manca la fiducia, i servizi segreti sudanesi sono molto ben informati di quanto accade all’estero, e nessuno di loro, alle prese con la sopravvivenza qui in Italia e dei loro cari in Sudan, approva pienamente lo sforzo internazionale affinchè giungano viveri o aiuti materiali in Darfur, dove tutto è gestito e spartito dai funzionari di Khartoum. Servono azioni politiche, di lobbying, piuttosto, per una svolta seria del destino della gente del Darfur. Ora stiamo cercando l’aiuto di altre associazioni nel territorio, che possano supportarci nel nostro tipo di attività.

- Eppure le divisioni al vostro interno sono tante..

- Si, è vero, io non le concepisco, sono un retaggio dei nostri padri e nonni, io proprio non li capisco, fur, zaghawa, masalit [le principali etnie dei darfuri, ndr] sono tutti cittadini uguali.

- Quanto accade in Libia ha ripercussioni sugli esuli sudanesi, che, come te, la sceglievano come terra di passaggio per l’Europa?

- Si certo, al contrario di quanto si creda, Gheddafi era si un dittatore, ma ha sempre fatto il doppio gioco, aiutava il governo sudanese, ma anche i ribelli. A noi permetteva di arrivare in Libia, di fermarci o di proseguire per l’Europa, al contrario di molti altri Paesi vicini, come l'Egitto. Se cade, li si faranno tutti la guerra, come in Afghanistan.

La voce di Abdul non si arresta nemmeno quando ordiniamo, più tardi, le pizze e l’acqua.

Si spegne, invece, in un saluto, quando giunge l’ora della mia partenza. Mentre mi allontano, mi accompagnano ancora le sue parole. E il suo sguardo di speranza, proiettato in un futuro forse ancora troppo distante.

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