Il blog di Italians for Darfur

martedì, aprile 07, 2009

Il mandato di arresto per Bashir e la reazione della Comunità internazionale

di Stefano Cera
Pubblicato su medarabnews: http://www.medarabnews.com/2009/03/25/il-mandato-di-arresto-per-bashir-e-la-reazione-della-comunita-internazionale/
Il 4 marzo 2009, la Camera preliminare uno della Corte Penale Internazionale (CPI) ha accolto la richiesta del procuratore Luis Moreno-Ocampo di emettere un mandato di arresto nei confronti del presidente del Sudan al-Bashir (la prima nei confronti di un capo di stato in carica), riconoscendo sette dei dieci capi d’imputazione presentati dal procuratore (cinque per crimini contro l’umanità e due per crimini di guerra). Secondo le prove raccolte in oltre tre anni d’indagini le “forze e gli agenti” che agivano sotto il controllo di Bashir, hanno ucciso almeno trentacinque mila civili e causato la morte di un numero di persone calcolato tra 80.000 e 265.000, che sono state sradicate dalle loro case. Tuttavia, i tre giudici della Camera non hanno raggiunto un accordo sulle accuse di genocidio, riguardanti la volontà del Presidente di distruggere in modo sostanziale i gruppi africani Fur, Zaghawa e Masalit sulla base della loro etnia; i giudici hanno comunque affermato di poter riprendere in considerazione la questione in caso di nuovi elementi.
La risposta di Khartoum
La televisione di stato ha bollato come “neocolonialista” la decisione e nella capitale centinaia di persone sono scese in piazza in segno di protesta. Il governo ha espulso tredici organizzazioni non governative, accusandole di aver collaborato con la Corte. L’espulsione è stata criticata dal leader dello Justice and Equality Movement (JEM), Khalil Ibrahim, secondo cui viola apertamente quanto stabilito dall’accordo di pace sottoscritto con il governo a Doha il 17 febbraio scorso. Inoltre Bashir, in segno di sfida nei confronti della Corte, nei giorni scorsi ha fatto visita al presidente eritreo Issaias Afeworki e ha dichiarato di voler partecipare al summit annuale dei paesi arabi che si svolgerà a fine marzo in Qatar. A tal proposito giungono notizie contrastanti da Khartoum, poiché alcuni organi di stampa hanno affermato che Bashir non parteciperà all’incontro. La verità è che il presidente sta subendo forti pressioni (dei paesi arabi e all’interno del paese) affinché diserti il summit, legate all’eventuale imbarazzo che la sua presenza potrebbe creare al Qatar e agli altri paesi arabi, ma anche al timore che l’aereo del presidente possa essere intercettato da velivoli stranieri che lo costringano ad atterrare in uno stato firmatario dello Statuto della Corte, dove il mandato di arresto potrebbe poi essere reso esecutivo. I movimenti all’estero del presidente del Sudan pongono l’attenzione su un aspetto importante, che riguarda il comportamento degli stati non firmatari dello Statuto della CPI. Infatti, se per i paesi che hanno ratificato lo Statuto di Roma è previsto uno specifico obbligo di rendere esecutivo il mandato, non esistono invece vincoli particolari per i paesi non firmatari (come ad esempio l’Eritrea o il Qatar). Tuttavia, i funzionari della CPI hanno fatto presente che potrebbero comunque trasmettere a un paese non firmatario la richiesta di rendere esecutivo il mandato di arresto. Anche perché, così come dichiarato dalla portavoce della Corte dell’Aja, Laurence Blairon, se è vero che alcuni paesi non hanno firmato lo Statuto di Roma, è altrettanto vero che sono paesi membri ONU e, come tali, hanno l’obbligo di applicare quanto stabilito dalla risoluzione 1593/2005 del Consiglio di Sicurezza ONU che, nel trasferire all’attenzione della Corte la situazione del Darfur, chiede a tutti gli Stati di cooperare con essa. Tale opinione è tuttavia confutata da Antonio Cassese (che ha presieduto la Commissione ONU incaricata di investigare le violazioni dei diritti umani e l’accertamento dell’eventuale genocidio in Darfur), che evidenzia che la risoluzione 1593 non ha posto uno specifico obbligo per i paesi non firmatari, limitandosi a chiedere cooperazione a tutti i paesi. Infine, il governo di Khartoum ha iniziato una “offensiva” diplomatica, inviando delegazioni con alti funzionari dello stato (tra cui il secondo vice-presidente Taha, i consiglieri presidenziali Nafi Ali Nafi, Mustafa Ismail e Ghazi Suleiman, il Direttore dell’Intelligence Salah Gosh, e il ministro delle Finanze Awad Al-Jaz) presso i paesi del Consiglio di Sicurezza ONU (con l’unica eccezione degli Stati Uniti), per spiegare la posizione del Sudan e per cercare alleati contro il mandato di arresto.
Il confronto nella Comunità internazionale
Nella Comunità internazionale si fronteggiano due opposti schieramenti. Da una parte Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia che difendono la richiesta di arresto, chiedendo che venga resa esecutiva; dall’altra Unione Africana (UA), Lega Araba, Movimento dei non allineati, Organizzazione della conferenza islamica, Consiglio per la Cooperazione nel Golfo e, all’interno del Consiglio di Sicurezza ONU, Cina e Russia, che esprimono invece una posizione contraria, rifiutando la richiesta e sottolineando la necessità di sospendere l’azione contro Bashir attraverso il ricorso all’art. 16 dello Statuto della Corte.Chi difende la sospensione considera il mandato di arresto un grave pericolo per il processo di pace che, come anticipato, nel febbraio scorso ha registrato un importante risultato con l’accordo di Doha (sottoscritto dal governo e dal JEM), che ha stabilito un preciso impegno delle parti in vista di un successivo accordo per la soluzione del conflitto nel Darfur. L’accordo, che ha avuto l’appoggio dell’UA, della Lega Araba e di alcuni importanti paesi arabi (Egitto, Libia, Siria e Arabia Saudita), sembra ora indebolito dalla recente decisione del leader JEM Ibrahim di sospendere la partecipazione al processo di pace fino a quando il Sudan non avrà ritirato l’ordine di espulsione dal paese delle organizzazioni non governative. Il mandato di arresto inoltre potrebbe portare a un “collasso” di tutto il Sudan, con nuovi pericoli per la popolazione civile del Darfur, la missione congiunta ONU/UA UNAMID, le attività delle ambasciate occidentali, quelle del personale delle ONG ancora presenti nel paese e la stessa implementazione del Comprehensive Peace Agreement del 2005, che ha messo fine a oltre venti anni di guerra civile tra Nord e Sud del paese. L’UA, allo scopo di operare una difficile riconciliazione tra l’esigenza di colpire quanti hanno commesso crimini nel Darfur e la sospensione dell’azione della Corte, ha promosso la costituzione di un panel di esperti africani, presieduto dall’ex presidente sudafricano Thabo Mbeki. Tuttavia, la sua attività è ancora all’inizio e non è ancora chiaro se il panel (che presenterà un primo rapporto all’UA il prossimo mese di luglio) avrà il potere di compiere indagini per proprio conto, se affiancherà i giudici sudanesi incaricati di compiere le indagini, oppure si limiterà a monitorare le procedure giudiziarie locali.Chi è contrario alla sospensione la ritiene soprattutto un rischio perché costituirebbe un pericoloso precedente, in grado di indebolire la credibilità della Corte e della stessa ONU; infatti, stabilendo una presunta “negoziabilità dei diritti umani”, metterebbe in secondo piano le responsabilità di Bashir nei confronti delle persecuzioni dei civili, che anzi potrebbero continuare anche grazie al “clima” di impunità creatosi. Inoltre, è forte il timore che la sospensione finisca per annullare gli sforzi della Corte, secondo il principio “justice delayed, justice denied”. Al riguardo, Desmond Tutu, premio Nobel per la pace nel 1984, ha preso una posizione netta, affermando che “per quanto dolorosa e scomoda possa essere la giustizia, abbiamo già preso atto che l’alternativa – lasciare che ci si dimentichi di far sì che chi commette reati risponda del proprio comportamento – è di gran lunga peggiore” (la Repubblica, 5 marzo 2009). Infine, chi è contrario alla sospensione sottolinea che il mandato di arresto potrebbe costituire un efficace mezzo di pressione, in grado di provocare cambiamenti anche all’interno dello stesso regime, lacerato da tensioni interne. Tuttavia, per fare questo occorre che tutti gli stati diano il loro sostegno, forte e senza ambiguità, all’attività della CPI.
La posizione dei paesi arabi
La Lega Araba, in prima fila nell’impegno di sospendere l’azione della Corte dell’Aja, riconosce tuttavia che ci sono esigenze di giustizia che non possono essere trascurate; per questo, secondo il segretario Amr Moussa, la soluzione migliore è che sia lo stesso Sudan a garantire la condanna dei responsabili dei crimini commessi nel Darfur, attraverso un efficace sistema giudiziario interno. Il Sudan ha espresso una disponibilità di massima rispetto alla proposta. L’Egitto da parte sua ha proposto di svolgere una conferenza internazionale che riunisca i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza ONU (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) e tutti i paesi potenzialmente coinvolti, allo scopo di definire una visione comune sulla questione. La Conferenza dovrebbe raggiungere un importante obiettivo, ossia integrare, riconciliandole, le questioni politiche e giuridiche alla luce della decisione della CPI. L’idea, per la verità, è stata lanciata dalla Lega Araba fin dall’estate scorsa, dopo la presentazione delle accuse da parte del procuratore Moreno-Ocampo, ma è stata sempre rifiutata da Khartoum perché la conferenza significherebbe “internazionalizzare” la questione del Darfur. La diplomazia egiziana inoltre sta agendo nei confronti di Khartoum per annullare l’espulsione delle ONG, anche in questo caso incontrando la ferma opposizione del regime. Per alcuni alti funzionari del Cairo il Sudan rischia l’isolamento internazionale, in modo del tutto analogo a quanto fece Saddam Hussein prima della guerra del 2003. La Libia, la cui posizione è importante sia perché Gheddafi è di recente divenuto il Presidente dell’UA sia perché il paese è membro temporaneo del Consiglio di Sicurezza ONU, ha minacciato (per la verità senza alcun seguito) il ritiro della ratifica dello Statuto della CPI da parte di tutti i paesi africani. L’Iran ha dato pieno appoggio a Bashir, come dimostrato dalla visita a Khartoum del portavoce del Parlamento di Teheran, Ali Larijani. Di grande interesse è anche la posizione dell’Arabia Saudita, sia perché potrebbe orientare quella di altri paesi arabi, sia per il più vasto quadro delle relazioni regionali in Medio Oriente. Il governo di Riyadh si è detto “disturbato” dalla richiesta di arresto, sebbene nei mesi precedenti abbia più volte rifiutato la richiesta di Khartoum di utilizzare la sua amicizia con Washington per favorire la sospensione dell’azione della Corte. Nei mesi scorsi, peraltro, l’Arabia Saudita è stata uno dei pochi paesi arabi ad aver ricevuto la visita del procuratore Moreno-Ocampo. Di conseguenza, pur criticando la richiesta di arresto, la posizione dell’Arabia Saudita nella vicenda è comunque di grande equilibrio e il suo interesse è evitare che un grande paese arabo come il Sudan possa entrare (dopo la Siria) nella sfera delle amicizie dell’Iran. Infine, un discorso a parte merita la Giordania, che ha assunto una posizione diversa rispetto agli altri paesi arabi. Infatti, non solo il paese è, insieme a Gibuti e alle Isole Comore, il solo fra quelli arabi ad aver firmato lo Statuto della Corte, ma, nei giorni scorsi, ha anche espresso un chiaro favore al mandato di arresto, affermando di voler agire in rispetto dei trattati e delle organizzazioni internazionali e chiedendo più volte al Sudan di presentare le prove per confutare la richiesta di arresto emessa dalla CPI.

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